Isabella Ciaffi nasce a Pescara nel 1952. E’ cresciuta nella città di Bologna dove ha studiato e maturato la passione per il disegno e l’incisione che l’ha portata a conoscere le pratiche del lavoro tipografico. Dal 2000 realizza libri d’artista che stampa e cuce nel suo laboratorio. Le sue numerose incisioni sono patrimonio di collezioni pubbliche e private di rilievo internazionale. Incisore, sognatore silenzioso e solitario, questo però non le ha precluso di avere amicizie vere con persone del mondo della creatività.

MG Di Isabella Ciaffi mi impressiona la riservatezza, una mitezza d’altri tempi, che si accompagna ad un’altra sua virtù: il proverbiale silenzio che sembra aver mutuato da un altro suo conterraneo, qual era Giorgio Morandi, entrambi bolognesi. Di ben altro tenore le sue incisioni, che rapiscono il mio sguardo – seduto nel salotto casertano di German Muller – che cade in un rettangolo non più grande di una cartolina, sulla gestualità inquieta di alcuni segni impressi sulla carta. 

A fatica ne leggo la firma, ma la trama decisa di quei segni, ricordo, egregiamente reggevano il peso del colore nelle grandi tele stipate alla rinfusa, nella stanza, addossate le une alle altre. L’incisione che negli anni tu hai praticato è stata un’esperienza sempre su un versante ad limite, con una gestualità segnica d’impeto, irruente, incisa come d’istinto. Le tue incisioni sono esattamente all’opposto della tua personalità. 

Considero che il compito dell’arte è non certo quello di illustrarci oggettivamente la realtà, piuttosto – come lo fu per Morandi – spingersi sul precipizio dell’invisibile, scavando nelle penombre interne dell’anima, nelle contraddizioni della vita, per riuscire nell’impresa di dare forma a qualcosa che ci sembra essere irraffigurabile. 

Questa distanza fra il tuo presentarti mite e l’essere, invece, temeraria, che sembrano condizioni impossibili da coniugare, ti ha portata a sperimentare una calcografia sempre spinta al confine dell’irrappresentabile. Come quando hai interpretato il capitolo quarantadue di Moby Dick, il romanzo di Herman Melville sulla bianchezza della balena. Un ciclo di incisioni in cui le trame e i segni degli inchiostri – solitamente neri per un incisore – sono stati riconvertiti nelle più imprevedibili declinazioni del bianco con trasparenze e velature che si addicono più alla pratica della pittura che all’incisione.

In fondo, hai con coraggio attraversato quel muro di scrittura – ponendo anche a repentaglio l’abilità del mestiere – per rendere visibile ciò che viene dalla scrittura, non come rappresentazione convenzionale, piuttosto restituendo qualcosa che è invisibile allo sguardo e che prima ancora di essere inciso sulla lastra, immerso nelle morsure degli acidi, tu sperimenti nello spazio del tuo essere. Quei segni che sembrano essere un test di Rorschach sulla personalità, inconfondibili, che sostieni di tracciare “inconsapevolmente” ed invece, io credo, rispondono con straordinaria coerenza alle tue “risonanze interiori”. 

IC Credo che il mestiere dell’incisione induca ad un pensiero di vita diverso. Per lavorare devi seguire una disciplina ferrea. Quando si incide si vive in uno spazio d’attesa perché l’incisione può avere tempi anche lunghi e delle sequenze che non si possono saltare. Il vero lavoro diventa saper attendere. L’incisore è colui che vive di momenti di particolare tensione interiore. Quella tensione in forza della quale l’artista crea. È colui che ama estraniarsi dal vivere quotidiano per potere raggiungere la giusta concentrazione nel lavoro, che è anche pratica manuale.  

La manualità è preceduta da una lunga e talvolta inconsapevole progettazione mentale. La storia dell’arte ci insegna come artisti che avevano una vita dissipata e a volte anche violenta, abbiano creato nelle loro opere immagini sublimi di armonia e di pace, frutto di una mirabile e irripetibile fusione tra due principi, tra due forze contrapposte. Veniamo alle mie incisioni che potrebbero, anzi sono lette come temerarie, per via di quei segni rapidi, feroci sempre in tempesta ma inseriti in una realtà spregiudicatamente seria, come è seria l’aspirazione della risolutezza del segno e la ricerca di uno stile proprio. 

Quando ho riletto Moby Dick mi sono lasciata trascinare dalla lezione d’arte contenuta nelle pagine della bianchezza della balena. Merville, fa ben capire i vari aspetti delle infinite problematiche psicologiche e non, attraverso una continua lotta e riconciliazione del colore bianco che se da un lato chiarisce, dall’altro non fa che porre enigmi, che non spetta a me risolvere. 

Da parte mia ho provato a interagire, sfidando sotto una nuova luce, tutto quello che per anni avevo rincorso. La purezza dell’incisione.
Analizzavo i concetti scritti nel capitolo, li concretizzavo eseguendo una marea di disegni poi affidati in piccola parte alla lastra, con una visione compatta e libera; una scrittura separata dal punto di vista di una riuscita tecnica, cercando punti di equilibrio tra incisione e pittura. Un punto di vista di mezzo, né una cosa né l’altra, una terza via.

In fase di stampa con gli inchiostri, ho meditato a lungo sulla ricerca di un metodo capace di riempire i solchi dei segni sulla lastra per poi imprimerli sulla carta. Tali segni, che conservano il carattere della primordialità, sono avvolti da una forza che annoda tutte le radici necessarie per una giusta lettura della stampa. In questo caso, non è venuta meno la fedeltà, il mestiere. 

MG L’alternanza fra il il nero degli inchiostri e questo desiderio di sconfinamento nella poetica visiva del bianco, ispirato alla balena albina, segna nel tuo lavoro un passaggio cruciale, che apre alla dialettica fra il buio e luce. La bianchezza, nelle tue incisioni risveglia immagini di raffinata bellezza ma anche di terrore e di accrescimento, fino all’estremo di quell’idea di morte. Simbolicamente, queste estremità cromatiche sono filosoficamente tradotte come l’immagine di due opposti in contraddizione: il nero per negazione, il bianco per accumulazione, come per l’incisione fra la trama dei neri e il chiarore latteo delle carte, lo stesso delle camelie.

Nel mezzo, nei secoli dell’arte si è mossa l’esperienza della pittura e poco, o quasi mai, è stato terreno su cui si è messa in gioco la pratica dell’incisione. Richiamando il capitolo quarantadue sulla bianchezza, nella sua essenzialità questa non è tanto un colore, quanto l’assenza visibile di ogni colore e nello stesso tempo l’amalgama di tutti i colori. Un universo di pieni e di vuoti. Una vacuità muta, che sembra suggerirci in te il desiderio, forse inconscio, di rincorrere senza mai citarlo il colore. 

IC All’incertezza dell’inconscio desiderio di rincorrere il colore contrappongo la certezza del colore come simbolo romantico di una bellezza quasi irrappresentabile. Il colore è profumo. Il colore è l’essenza dei sali che resta sulla pelle e che l’attraversa mescolandosi con la linfa vitale. È ciò che ho risposto ad un ragazzo che mi ha chiesto cosa fosse per me il colore, al termine di una lezione di storia dell’arte all’Istituto Cavazza per non vedenti. Mi ha regalato un gran sorriso. L’inchiostro da stampa nero (in commercio esistono più tipi di nero) ha un profumo intenso di petrolio allo stato grezzo, un odore di sottosuolo. Gli inchiostri colorati, invece, hanno profumi quasi di erbaccia, di soprasuolo. Questa è la mia logica di pensiero.
In Moby Dick ho dato forma espressiva a questa dicotomia che mai avevo sperimentato graficamente, ma che si è rivelata profetica sulla strada da percorrere. Queste due estremità, buio-luce, sono simbolicamente tradotte come l’immagine di due opposti in contraddizione. Se ribalti la questione, puoi avere un bianco pieno e un nero vuoto. Tutto dipende da come traduci graficamente e tecnicamente il linguaggio dell’opposizione. Arrivano a combaciare perfettamente. Ti offrono infinite e infinite possibilità di mettere in discussione la stessa realtà, ponendoti infinite e infinite soluzioni per arrivare ad una estetica dell’invisibile.  Non ho mai avuto la presunzione di addentrarmi con il mio lavoro nei grandi temi della vita, questo non è mio compito. 

MG La morsa che stringi fra le sgorbie e i bulini alla letteratura, mi suggerisce un’acutezza del tuo navigare attraverso la scrittura, stabilendo con questa una costante tensione di impulsi psicologici che generano una gran quantità di incisioni ascrivibili a tue immagini interiori.
Di questa dialettica fra segno e scrittura, o dualismo fra uomo e natura, ne colgo il legame come evidente era per Borges che compose una poesia ispirata a Melville, di cui ti scrivo alcuni versi: […] Le due enormi cose, la balena / E i mari ch’essa lungamente solca. / Sempre fu suo il mare. Quando i suoi occhi / Videro le infinite acque oceaniche, / Già le aveva bramate e possedute / In quell’altro mare che è la Scrittura. […] 

Mi muove la convinzione che nel tuo praticare la diversità dei linguaggi – finanche applicata ai tuoi libri d’artista – nelle incisioni si legga, in controluce, un intimo desiderio di rammendare l’avvenuta lacerazione moderna fra l’umano mondo e l’universo della natura. In fondo, anche il capitano Achab, in quella “bianchezza della balena”, che diventa sempre più attuale man mano che passa il tempo, fra testa e coda del capodoglio, metafora di principio e fine, vita e morte, vedeva solo e nient’altro che un pressante pericolo per l’intera umanità. I tuoi segni al pari della scrittura che considero solo come forme diverse di linguaggio, sono un manuale di sopravvivenza, dentro cui ritrovare come una bibbia, il disegno delle “cose”, di noi stessi, del destino. 

IC Tra l’uomo e la natura è avvenuta una lacerazione quasi insanabile. L’uomo ha perso la capacità di contemplazione della natura e quindi la ricerca della bellezza e dell’armonia, ha perso questa attitudine umana, ha sacrificato tutto, per la presunzione di adattare la natura alle sue esigenze materiali. Nel mio lavoro di incisore ho eliminato volutamente la presenza dell’essere umano, quindi tutto è rivolto alla ricerca di un equilibrio tra estetica e disarmonia. Appare sempre il dualismo e sempre occorre cercare, sperimentare, per fugare dalla mente tutto quello che non ci appartiene. 

Nei miei libri d’artista appare abbastanza evidente questo mio legame con la natura, sia per le scelte dei testi che per le incisioni. I miei segni si configurano come forme diverse di linguaggio. La mia incisione narra di splendidi paesaggi, degli sconfinati scenari delle verdi distese, dell’azzurro del cielo che si incontra con gli immensi spazi del mare. Dovrebbero raccontare questo. O forse non è così.

Forse racconta di quanto la natura sa essere violenta, terrificante, di quanto essa sa essere fonte d’illusione e come forza suprema, incurante dell’uomo, senza risparmiare dolori e orrori, poiché l’essere umano è solo una misera componente  del grande meccanismo naturale nel suo incessabile vortice del divenire. Queste le mie incisioni. 

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