Mercoledì 5 agosto 2020
L’artista non può governare il suo risultato, esiste una sproporzione fra quello che realizza e quello a cui sarebbe voluto pervenire.
E’ un’arena lo studio di Giovanni Cuofano, un luogo in cui si consuma drammaticamente una lotta senza fine, perché il suo primo interesse è conferire una forma a tutto ciò che solitamente è informe.
Con l’unico mezzo che possiede. Il fuoco.
Materie di scarto e di discarica per le sue combustioni.
Volevo toccare con mano fin quanto ci si potesse spingere nel recuperare la materia, l’irrecuperabile e sublimarla in una nuova forma.
Quelle di Giovanni sono plastiche sgraziate che mai saranno della stessa levigatezza della natura.
Nessun dialogo avviene con la materia.
Piuttosto con il fuoco e vi si spinge nel centro, al suo interno. Uno scontro traumatico dall’esito imprevedibile, in cerca di una forma.
Cuofano fa suo il pensiero di Nietzsche, secondo il quale “il vero artista, non dà valore a nessuna cosa che non sappia divenire forma”.
Ogni sua opera conserva i segni di una forza che sulla materia il fuoco ha lasciato.
Bruciandola, torcendola. Liberandola da una sua originaria forma.
Il fuoco non solo consuma, purifica.
Non un processo di distruzione, una pulsione di morte della forma che l’artista cerca disperatamente nel suo lavoro.
Piuttosto, un fuoco che nel penetrare la materia si comporta come Eros, includendo nella forza la forma.
Thanatos ed Eros in perfetto equilibrio.
Prima di andar via, fra le mani una sua combustione, “portala con te”.
L’ennesima combustione. Aveva la stessa forza di un Turner.
foto di: Veronica Adamo