EXHIBITION
Winning the time
opere di Diana D’Ambrosio
testo di Michelangelo Giovinale
luogo Galleria Spazio Vitale arte contemporanea
Incipit della mostra
“sin da piccola, raccoglieva sassi sulla riva, una passione comune a sua madre che traduceva in poesia i volumi delle pietre levigati dal mare. Quei sassi diverranno bronzi, composizioni morbide, manipolate come la cera che raccoglieva durante le processioni di paese.
Negli anni il fine della sua opera sarà ancora più stringente: rinsaldare il rapporto vacuo fra uomo e ambiente, serrare la ricerca nella complicata relazione con la natura.
Poi… sono arrivate le ruggini.
Diana, le cercava da tempo. Le sentiva sue, come qualcosa di vivo, di forza intrisa di tempo, seguendo le tracce mutevoli della materia, nelle pieghe che il tempo torce come cicatrici accartocciate sulla pelle delle cose.
Chi sa perché … le ruggini non tradiscono mai. Eppure, senza di esse non si comprenderebbe cosa sia la vita, nella metamorfosi della forma e di certe memorie e di quanto queste siano profondamente vissute”
Introduzione alla mostra
a cura di Michelangelo Giovinale
La caratteristica più pertinente della scultura di Diana D’ambrosio sembra essere la sua capacità di rivisitare il significato emotivo intrinseco della forma, aiutandola a liberarsi dal dato di mera apparenza, e di saper stabile con le materie che lavora sintonie che non si spingono mai oltre il limite naturale costitutivo. L’artista mette in atto un processo che sembra esserle ispirato dalla natura e dal mondo che la circonda, interiorizzando principi come equilibrio, ritmo, crescita organica della vita.
Nondimeno, nel suo operare repulsioni e attrazioni dialettiche fra materie differenti, vi è la misura di una meditazione riflessiva che decanta una sua risonanza interiore. La materia nel non essere mai altra rappresentazione da sé si manifesta come energia, potenza di una vita propria indipendentemente dall’oggetto che rappresenta.
Nell’opera di D’ambrosio, tutto avviene attraverso una ricerca che si dilata nel tempo da oltre un ventennio. Si colloca al centro del suo interesse un complesso esercizio di relazione con lo spazio, dove la singola forma solida, mantenendo il suo bagaglio di significati, si combina con altre forme in un unico insieme organico. È così che legni, pietre, superfici ferrose ossidate dal tempo, nella loro scarna essenzialità, sono ricollocate in nuovi equilibri formali ad intrecciare componenti diverse di ordine compositivo che decantano eventi emotivi o affettivi del vissuto dell’artista.
L’erosione che si deposita come patina sulla superficie della materia introduce nell’opera di D’ambrosio anche un’ulteriore chiave di lettura: il tempo, all’interno del quale cala il suo scandaglio interiore. Un’evidenza, entrando nel suo studio a Somma Vesuviana, nella corte di un antico palazzo nel centro storico, dove sono raccolti come reperti archeologici frammenti di pietre e ritrovamenti di altri elementi ricoperti da ruggini.
La creazione, nell’immaginario di D’Ambrosio, muove come “viaggio”, suo per primo, che l’artista esplora come memoria ma anche come momento di formazione tra la storia e il pensiero moderno, l’espressione della forma e le implicazioni più profonde della vita. Seguirà, indagando i segni depositati sulla materia, la persistenza di tracce e sedimenti di colore che raccontino un vissuto. Sarà più netta la presa di distanza dall’idea classica di una scultura rappresentata in blocco – che ci avvince da più di trentamila anni – concentrandosi su una scultura che “parli” dal di dentro.
La levigatezza, dei primi lavori, segna opere dal carattere decisamente risolto come Cavità ed ancora Anime plastiche e Ovulo. I lavori si concentrano sull’analisi di corpi plastici dalle forme femminili e sul complesso rapporto materno che si avverte – se pur sotto traccia – anche nelle opere più recenti.
La narrazione di linee morbide e di volumi levigati conserva il tepore di un viaggio intimo e domestico, che delinea attraversamenti prospettici e introspettivi che in questi anni saranno “avventura della mente”.
D’ambrosio, sin da piccola, raccoglieva sassi sulla riva, passione comune a sua madre. Quei sassi diverranno bronzi, composizioni dai volumi morbidi nello spazio, manipolate come la cera raccolta lungo le processioni di paese, e saranno improntate da un carattere segnatamente femminile.
Maternità, un marmo recuperato a Volterra nel 1998, sottolinea ancora la riflessione, fulcro del lavoro dell’artista in questi anni, sul tema madre-natura-figlia.
“Dal giorno in cui una statua è terminata, comincia, in un certo senso, la sua vita. È superata la prima fase, che, per opera dello scultore, l’ha condotta dal blocco alla forma umana; ora una seconda fase, nel corso dei secoli, attraverso un alternarsi di adorazione, di ammirazione, di amore, di spregio o di indifferenza, per gradi successivi di erosione e di usura, la ricondurrà a poco a poco allo stato di minerale informe a cui l’aveva sottratta lo scultore”.
È quanto scrive Margherite Yourcenar nel volume Il tempo del grande scultore. È legittimo sostenere che D’Ambrosio porti in luce il percorso della Yourcernar e che si sia ispirata all’opera di Emily Young, nel prelevare, sottraendoli alla natura, i materiali della sua scultura che alla natura, in qualche modo, torneranno.
Ambiente e individuo, per preservare la natura e la cultura, saranno un’attitudine che vedrà l’artista impegnata in sperimentazioni di Land Art, rinsaldando il rapporto con la natura in declinazione poverista con opere successive che saranno connotate dalla fragilità o deperibilità di materiali, facendo avanzare il linguaggio della scultura verso una personale poetica dello scarto.
Nello sperimentare interventi di Land Art D’ambrosio sembra definire una presa di coscienza dell’indifferenza verso le trasformazioni territoriali e dell’intervento dell’uomo su elementi che presentano un ordine naturale e che da tale intervento risultano sconvolti e incrinati.
Il fine è ancora più stringente. Ovvero, di traslare il significato originario della materia attraverso un processo di sublimazione dello scarto per dar vita ad un linguaggio concettualmente nuovo di scultura. Un capovolgere l’ordine stabilito delle cose, raccogliendo materie ritenute desuete, prelevate nei non-luoghi, con la convinzione che nell’oggetto di scarto esista una componente da riproporre come itinerario, conquista progressiva del tempo, da e verso il tempo, senza esitare o temere confronti nell’alterato rapporto uomo-natura.
In questa predilezione per taluni mezzi espressivi, come bianche pietre arenarie e blocchi di tufo, segnati da linee veloci di scalpello, in Trame del 2011 e anche cromaticamente evidenziati in Crocifissione dell’anno precedente, si può meglio assaporare anche un’avvertita esigenza architettonica che supera l’attenzione di una scultura dalle piccole dimensioni verso lo sviluppo di una monumentale verticale” che ne amplifica un’accurata indagine materica.
L’interesse per l’incontro o lo scontro dei materiali usati di cui l’artista si avvale, diventa stringente in opere quali Schermi e rotazioni del 2017. L’articolazione volumetrica della scultura è nettamente più a favore di una spazialità geometrica intessuta di rigore matematico. Blocchi di tufo accolgono tagli e innesti di lastre pesantemente ossidate. La convivenza degli elementi – anche in contrappunto – si presenta come particolarmente pregnante.
Risulta così molto articolata la modulazione della materia, di analogie immaginative, liberate dal perimetro stretto di oggetto, che ritrovano una loro vitalità nell’essere ricomposte nell’insieme dell’opera. Diana – lo sappiamo tutti – sa ben distinguere le radici delle cose, attenta com’è a mettere l’orecchio a terra, sapendo ascoltare ciò che si muove in profondità. Sotto pelle.
Conta molto relativamente se queste energie sono di derivazione naturale o radicamenti dell’essere umano. Da decenni il processo di ricomposizione a cui lavora, rammendando elementi della natura e dell’uomo si ricostruisce nei termini di una plastica più dinamica e più ampia come in Elica del 2003, Irripetibili armonie del 2017 e in Mira del 2018. Nella sua opera, la ricomposizione, non solo filosofica, avviene per immagini ritrovate di più tempi di stratificazioni di una unità perduta. Un microcosmo plastico di elementi diversi e una biosfera, che muovendo dall’idea di recupero dello “scarto” ritrovano integralmente, per mano dell’artista, una loro linfa in un equilibrio, non solo formale, di solennità espressiva.
Poi … sono arrivate le ruggini. D’ambrosio le cercava da tempo, come elemento vivo, pieno di forza, che respira e che amplifica le sensazioni, la percezione del tempo nella la sua inafferrabile mutevolezza. Le ruggini non tradiscono mai, senza di esse non si comprenderebbe cosa sia la vita, nella progressiva metamorfosi della forma e della memoria e di quanto la si sia davvero vissuta.
Nei recenti lavori, la ricerca della dialettica fra materie e tempo si infittisce, elevandosi ad un punto di estrema sintesi visiva. Nell’opera Tagli e innesti, del 2020, una lamina di ferro, ridotta a brandelli, corrosa e frantumata, torna a vivere come innesto nel taglio netto di un blocco di pietra di tufo.
Si è di fronte all’opera come ad una quinta stagione. Ci accorgiamo che qualcosa intorno a noi è mutato, in forma e sostanza e ne ignoriamo il tempo.
Diana D’ambrosio, afferrandolo questo tempo, lo ascolta e lo vince. Riconosce nelle pietre e nelle ruggini la persistenza di una memoria che la sua opera restituisce, per ciò che ci genera, ci forma, ci guida. La sua scultura custodisce una dimensione di tempo, il sapore del vuoto, il pieno dell’esistenza. Non più come scarto o erosione di identità perdute, corruzione o degrado. Come forza rigeneratrice.
Nessun respingimento fra la pietra e l’innesto della lastra di ferro. Nella distanza abissale fra le diverse materie-memorie si avverte una comune porosità. Una metafora visiva da cui ripartire.
Nel mondo d’oggi.
presentazione del volume
Winning the time – Gutenberg Edizioni
sulla terrazza di Spazio Vitale arte contemporanea