Venerdì 19 febbraio 2021
Sicuramente Luciano D’Inverno ha percorso molte strade.
Scegliendo quelle piu tortuose e impervie che lo hanno portato a esplorare il versante più oscuro del suo inconscio.
Oggi ero nel suo studio.
In ogni suo racconto saltava fuori sempre lo stesso intercalare. Sentire.
Come quando, dopo la morte del fratello, si è fatto rinchiudere, solitario, nella fitta vegetazione di un parco reale.
Non tanto per guardare piuttosto per sentire.
Per esplorare quel coacervo rovente di dolore, di morte e meraviglia. Quelle pulsioni ossessive che si avvertono nei luoghi della sua fotografia, dove l’immagine è sempre qualcosa d’altro da se.
Qualcosa, che oscilla verso una profondità, una messa a fuoco, su ciò che sta al di la dell’apparenza, fra i fuori fuoco di quelle luci sempre umbratili, mai nette, sospese e inquiete come sfumature leonardesche, che costringono sguardi a cercare in quei anfratti della natura, mai del tutto svelati nelle sue immagini, in quella camera oscura, appunto, del suo sentire.
Usciamo dallo studio. Fuori è buio. Io con una sua foto, lui trascinandosi dietro un trolley con gli attrezzi del mestiere.
Domani, l’ennesima battuta fotografica, mi dice, prima dell’alba.
L’ennesima autoanalisi.
In fondo, la fotografia è un modo di vivere per Luciano un “sopra” vivere.