Martedì 6 ottobre 2020
C’è una generazione di pittori che si fatica a vedere. Diremo, d’altri tempi.
Sono quelli che ancora ascoltano la natura, in quel campo della pittura che, stranamente, restituisce immagini che appaiono sospese, immancabilmente, inquiete e indefinite.
Di anni ne ha settantasei. Salvatore De Curtis è una presenza semplice, gli occhi piccoli, lucidi, un corpo smunto che si reca ogni mattina, come fosse il primo giorno, al confronto con la pittura.
Ieri ero nel suo studio. Una piccola stanza, giusto lo spazio angusto per una sedia, il cuscino comodo e un cavalletto. Quello di sempre, acquistato da ragazzo, contro il volere del padre che gli ripeteva “i pittori fanno la fame”.
Tutt’intorno, stipato e in ordine il suo lavoro.
De Curtis dipinge paesaggi, raramente figure, insistendo molto nell’espressione di una forza che lo porta nella descrizione di una natura sganciata da ogni vincolo di mera rappresentazione.
Facciamo fatica a sentire nostra questa generazione di artisti, che vanno per altre vie, lontano dalle risacche della modernità. Sono loro quelli che, nelle pieghe della vita, sanno cogliere quel senso di infinito.
Loro, forse più di altri, sanno spogliare un corpo, mettere a nudo la natura, tradurre quel profondo senso di assoluto. La luce di un orizzonte, un mare scuro, un corpo cupo.
Ogni mattina, dalla sua finestra dipinge il mondo, la precarietà del mondo, ciò che gli rimane del mondo. Fedele alle sue immagini e senza mai sentire alcun bisogno di tradirle.